Uomini e tigri

La giornata mondiale dedicata a una specie a rischio in India, tra turismo intensivo e caccia senza regole

di Fiore Longo, per Survival International*

per tutte le foto, © Survival International

Eravamo seduti intorno al fuoco. Delle case in cemento si stagliavano sullo sfondo. Ciò che rimaneva di quello che un tempo fu una comunità. “Ci hanno sfrattato nei giorni più caldi. Ricostruire le nostre case sotto il sole è stato così difficile… Nella foresta avevamo tutto: cibo, vestiti, acqua. Quando ci hanno portato qui abbiamo perso tutto. Ora non abbiamo più niente.”

Nello sguardo di quest’uomo, appartenente alla tribù dei Baiga, è ancora vivo il ricordo della vita nella florida giungla di Kanha. Anche la sua sofferenza è ancora viva. Sono stati costretti a lasciare la loro terra ancestrale solo 4 anni fa, in quello che è stato considerato un successo della conservazione in India: la creazione di uno spazio inviolabile per le tigri nella storica riserva che ispirò il creatore de Il libro della giungla.

Come tanti altri popoli tribali dell’India, i Baiga hanno vissuto e gestito i loro ambienti per millenni, condividendo insieme alle tigri un’area geografica a cavallo tra Madhya Pradesh e Chhattisgarh. A custodire i delicati ecosistemi che hanno permesso la sopravvivenza del felino sono stati proprio loro; ciò nonostante, una dopo l’altra, sulle loro comunità è arrivata la minaccia di sfratto.

“Le persone e le tigri possono vivere nello stesso spazio”, mi spiega un uomo Baiga. “Siamo noi i difensori della foresta. Se non la salviamo noi, cosa succederà? Se l’abbandoniamo, chi la proteggerà?”.

Le sue parole si perdono nel silenzio freddo della notte di Achanakmar, e il punto interrogativo che sollevano si unisce a quello delle 100mila persone già sfrattate in India nel nome della conservazione delle tigri e a quello delle almeno 282mila persone che sono oggi sotto minaccia di sfratto illegale.

Uomo baiga sfrattato da Kanha nel nome della conservazione. I Baiga sono stati
banditi dalla Riserva delle tigri di Kanha che è stata la loro casa per innumerevoli
generazioni. © Survival

Gli spazi ufficialmente dichiarati riserve delle tigri sono 50, e in circa 34 sono previsti piani di trasferimento dei popoli tribali che quegli spazi li considerano casa loro. Ma perché “trasferirli”?

Sfrattare i popoli tribali è la soluzione migliore, l’unica possibile? A questa domanda avrei trovato risposta man mano che mi immergevo nelle foreste indiane, nel corso del mio lungo viaggio di ricerca per Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni.

La retorica dei Big Cat

Le tigri sono inserite come specie in pericolo nella lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Si stima che nel 1900 il numero di questi straordinari felini si aggirasse attorno ai 40mila esemplari, e che alla fine del periodo coloniale si fossero ridotti a 5mila.

Oggi pare ne siano rimasti soltanto 2.226. Per salvare il suo “animale nazionale”, nel 1973 il governo indiano, attraverso la National Tiger Conservation Authority, ha lanciato il Progetto Tigre, sostenuto dalle grandi organizzazioni per la conservazione.

Elemento fondamentale della sua strategia di salvataggio è la necessità di “fare spazio alla natura”, come recita anche il titolo di un
documentario della Wildlife Conservation Society (WCS). Secondo i conservazionisti, per garantire la sopravvivenza di circa 80/100 tigri occorrerebbe circa 800-1000 km2 di spazio inviolabile.

La drammaticità dei numeri e le commoventi strategie di comunicazione sembrano convincere i donatori occidentali. Per salvare gli animali in pericolo, ogni anno, nelle casse delle grandi organizzazioni della conservazione confluiscono ingenti somme di denaro: solo il WWF riceve donazioni per 2 milioni di dollari al giorno! Ma molti dei donatori ignorano che il loro contributo potrebbe contribuire indirettamente a finanziare progetti che non solo hanno un impatto devastante sulla vita di molti popoli tribali ma anche sulla natura stessa.

Lo sfratto dei popoli indigeni è una soluzione non solo illegale ma anche inefficace. La riduzione del numero delle tigri ha origine nella storia coloniale e non ha nulla a che vedere con i popoli tribali. La caccia alle tigri era uno sport piuttosto diffuso tra le élite indiane e britanniche durante il Raj inglese.

Lo stesso principe Philip, fondatore del Fondo Mondiale per la Natura (WWF), ha partecipato almeno una volta a queste battute di caccia responsabili, secondo le stime, della scomparsa del 90 percento degli esemplari.

Oggi tra le minacce principali alla sopravvivenza delle tigri ci sono la perdita del loro habitat dovuta all’industrializzazione, all’urbanizzazione e alla costruzione di strade; e ovviamente la caccia illegale, incentivata dalla crescente domanda da parte delle classi agiate asiatiche disposte a pagare cifre esorbitanti per accaparrarsi parti dell’animale. Secondo un’inchiesta condotta da Wilfried Huismann, pluripremiato giornalista tedesco, nel quartiere Chinatown di New York il prezzo della farina di ossa di tigre supera quello dell’eroina.

Donna baiga del villaggio di Rajak, sotto minaccia di sfratto. Gli abitanti sono
determinati a restare e dicono di non voler lasciare la loro foresta. Riserva delle tigri di
Achanakmar. © Survival

Se si considera anche il fatto che un quarto delle tigri indiane abita fuori dalle riserve, l’istituzione di aree protette non può che rivelarsi una soluzione parziale. Creare “fortezze” senza mettere in discussione il modello economico dominante non può essere considerata una soluzione a lungo termine perché non eviterà la distruzione degli habitat delle tigre e finirà per distruggere invece i
popoli tribali, che hanno stili di vita rispettosi dell’ambiente.

Inoltre, recenti studi come quello realizzato da TRAFFIC (la rete di monitoraggio del commercio della fauna e della flora selvatiche), Changing behaviour to reduce demand for illegal wildlife product, dimostrano che un modo molto efficace per ridurre il traffico illegale di specie selvatiche è quello di investire in progetti che mirano a cambiare i comportamenti per ridurre le richieste dei consumatori.

Alla luce dei risultati di questo studio, risulta sempre più evidente che la militarizzazione della protezione della natura e le politiche dello sparare a vista introdotte per combattere il bracconaggio – sbandierate come l’ultima spiaggia per salvare la tigre –, in realtà sono più utili a raccogliere fondi che a salvare gli animali.

Donna baiga del villaggio di Rajak. Gli abitanti vivono insieme alle tigri da
generazioni e vogliono restare nelle loro terre ancestrali. Riserva delle tigri di Achanakmar. © Survival

Come mostrato in modo drammatico anche dal recente documentario della BBC, Killing for conservation, la conferma arriva da un numero crescente di ricerche: i guardaparco armati non sono un deterrente per i cacciatori illegali (disposti a rischiare anche la vita per gli alti profitti generati dai prezzi in aumento) e spesso finiscono per commettere esecuzioni extragiudiziali, uccidendo molti indigeni innocenti. Gli sforzi preventivi dovrebbero concentrarsi sui veri responsabili del bracconaggio, ovvero sui criminali collusi con funzionari corrotti.

Da anni Survival International lotta contro gli abusi subiti dai popoli indigeni nel nome della conservazione, eppure la retorica militaristica e il paradigma della “conservazione-fortezza” continuano a essere molto diffusi nelle politiche di protezione della natura.

Anche se il fenomeno viene negato nelle conferenze pubbliche chi, come me, conduce ricerche sul campo lo sa perfettamente: nel nome della protezione della natura si commettono gravi violazioni di diritti umani. Eppure a volte, anche per noi ricercatori pronti a tutto, la realtà arriva a superare l’immaginazione.

Due pesi e due misure

L’aspetto più controverso delle riserve delle tigri si fa evidente non appena ne visiti una. Mentre i popoli tribali che abitano nelle riserve e nei dintorni vengono sfrattati illegalmente dalle terre ancestrali e rischiano pestaggi, torture e morte, contemporaneamente alberghi, ristornati e turisti sono i benvenuti.

Nel solo Parco Nazionale di Kaziranga tra il 2015 e il 2016 sono entrati 174.216 turisti. Percorro in jeep le strade tortuose di quella foresta mozzafiato, ma non riesco nemmeno a sentire quello che cerca di dirmi il ragazzo indiano che viaggia con me. Il rumore del
motore è assordante. Conto i veicoli che incrociamo: 16 in una sola mezz’ora.

Mi vengono in mente le parole di un importante funzionario della riserva di Ranthambore, lette su un giornale indiano: “Turismo e conservazione sembrano essere due cose opposte, ma sono complementari. Il nostro obiettivo principale è la conservazione delle specie selvatiche, e l’eco-turismo ne è parte integrante”.

Nella riserva di Nagarhole, un uomo Jenu Kuruba mi racconta il suo punto di vista sulla questione: “Ci hanno sfrattato con il pretesto che facevamo rumore, che disturbavamo la foresta. Al posto nostro ora ci sono molte jeep e veicoli da turismo: ma loro non li disturbano gli
animali?”.

“La tigre è nostra sorella”

In un documentario realizzato in collaborazione con la WCS, una celebre conservazionista indiana afferma: “Gli indigeni si sentono profondamente legati a questi posti, anche se qui hanno una vita molto difficile. Vivono nella paura costante degli elefanti, dei leopardi, delle tigri. E, quando hanno dei bambini piccoli, le sfide diventano ancora più grandi”.

Per gli esponenti indiani della WCS, convincerli a lasciare le loro terre è decisamente un’opera di magnanimità non solo nei confronti
degli stessi popoli indigeni ma anche della natura. In realtà, molti popoli tribali dell’India venerano le tigri, e le considerano parte della loro famiglia spirituale allargata.

“Quando vediamo una tigre, non proviamo nessun fastidio”, mi spiega un Soliga nella Riserva di BRT Hills. “Per noi è come il bestiame, come una mucca, come una gallina. Sappiamo come vivere con loro, l’abbiamo fatto per millenni. Tigri, elefanti.. per noi non c’è alcuna differenza. Siete voi che li vedete sui giornali e vi sorprendete. Gli animali sono parte della nostra vita.” Pare anche che le tigri non sopportino di essere “insultate”, mi racconta un altro uomo: “Se ci imbattiamo in una tigre non abbiamo paura: persino un bambino sa che basta chiamarle “grandi cani” per farle allontanare!”

A riprova del fatto che tigri e popoli tribali possono vivere insieme, non ci sono solo parole ma anche fatti. Un recente censimento ha mostrato che proprio nella riserva delle tigri di BRT Hills, in cui i Soliga si sono visti riconoscere, per la prima volta in una riserva, il diritto a restare, il numero dei felini è aumentato ben oltre la media nazionale. Se nel resto dell’india le tigri sono aumentate di un 30 percento in cinque anni, nella terra dei Soliga il numero è raddoppiato.

Sfratti sbagliati. Sfratti illegali

Nel 2006, il governo ha varato una legge che protegge specificamente il diritto dei popoli tribali a restare nelle loro terre ancestrali: il Forest Right Act (FRA). In seguito, il Wildife Protection Act, la legge che regola la protezione della fauna e della flora indiane, è stata emendato per essere armonizzato con questa nuova tutela a favore dei popoli indigeni. La legge indiana sancisce
chiaramente che non possano avvenire trasferimenti dalle “critical wildlife habitat” senza il consenso previo, libero e informato dei popoli tribali coinvolti. Ma non è tutto.

Tra le altre condizioni, per poter effettuare un trasferimento devono anche essere fornite prove del fatto che la comunità stia danneggiando irreversibilmente flora e fauna, e che la sua convivenza con gli animali selvatici sia impossibile. Solo allora alla comunità verrà chiesto di scegliere tra una delle due opzioni previste dal pacchetto di trasferimento (resettlement package) che le autorità sono obbligate a predisporre: ricevere soldi in contanti (10 lakhs a nucleo famigliare, circa 13.500 euro), oppure trasferirsi in un resettlement village.

Nel primo caso la comunità si disgrega perché ogni famiglia dovrà cercarsi da sola la sua nuova casa senza ricevere nessun altro tipo di assistenza. Nel secondo, dovrebbe aver accesso a una casa, a una scuola, a un appezzamento di terra, ad acqua potabile e ad altri servizi messi a disposizione dal governo nel nuovo insediamento.

Per quanto imperfetta, la legge rappresenta un passo in avanti nella tutela dei popoli tribali dell’India. Ma purtroppo non viene rispettata. Conto i villaggi sfrattati o minacciati di sfratto che ho visitato… sono tanti. Sono stata in numerose riserve nel nord, nel sud e nel centro dell’India.

Un villaggio di reinsediamento (ancora in costruzione) dove abitano i baiga sfrattati
da Achanakmar nel 2009. © Survival

Non è mai stata fornita alcuna prova di danni irreversibili da parte dei tribali nei confronti della natura. Dalle interviste emerge anche che l’idea di consenso delle autorità è molto particolare: “(I funzionari) ci hanno detto che ce ne saremmo dovuti andare e che non potevamo rimanere lì.

Quel villaggio è stato la nostra casa per generazioni. Hanno detto che avrebbero portato lì le tigri e che le avrebbero fatte entrate nelle nostre case insieme agli elefanti, per distruggerle, cosi non avremo più potuto vivere lì”. Quando non vengono direttamente minacciate, le comunità subiscono così tante limitazioni alle loro pratiche quotidiane da essere costrette comunque a lasciare le loro terre. Piccole violenze quotidiane: raccogliere frutti e rami secchi dalla foresta è vietato, così come ricostruire le loro case se distrutte da un temporale. Ma una volta fuori dalla foresta, la situazione può farsi ancor più drammatica.

Chi accetta il risarcimento in contanti, raramente riceve la somma promessa. Cercare terra coltivabile a prezzi onesti può risultare un’impresa titanica, soprattutto per chi è sempre vissuto nella foresta e non è abituato alle transazioni di mercato.

Il più delle volte le famiglie finiscono per vivere ai margini del loro territorio, nello squallore più totale, senza nemmeno il conforto della loro comunità. I villaggi che sono ritrasferiti in blocco non hanno sorte migliore. I Baiga sfrattati dalla Riserva delle Tigri di Achanakmar nel 2009 trascinano le loro esistenze tra una scuola in eterna costruzione e fazzoletti di terra sterile.

Il contrasto tra la bellezza rigogliosa della foresta e lo squallore grigio di quegli insediamenti dalle case mai finite deve pesare sui cuori dei Baiga come una condanna a morte.

La solitudine della foresta

I Baiga avranno perso molte cose, ma i ricordi se li sono portati dietro. Non capiscono, come non lo capisco io, perché a pagare le conseguenze della scomparsa delle tigri siano proprio loro mentre le industrie colpevoli di distruggere gli habitat dei felini continuano indisturbate le loro attività inquinanti.

Anche i turisti, per i quali la natura è un godimento estetico e non un vettore di identità, continuano ad arrivare in massa indisturbati. Le grandi organizzazioni per la conservazione stringono partnership con l’industria e il turismo, e stanno distruggendo i migliori
alleati dell’ambiente. È una truffa. E sta danneggiando la conservazione. Come è successo che gli indigeni siano diventati i capri espiatori? Seduti attorno al fuoco mi sussurrano che forse, in quanto antichi compagni della foresta, danno fastidio, sanno troppo e vedono troppo.

Qualcuno ritiene anche che i loro stili di vita siano arretrati e debbano scomparire nel nome del progresso. E così, se vogliono frequentare la scuola, ai bambini Baiga è vietato farsi i tatuaggi tradizionali e portare i capelli lunghi. Sono considerate pratiche primitive. Ora che sono stati allontananti dalla loro foresta, la loro identità rimane legata fortemente ai quei tatuaggi.

Lontano dal fresco dei loro alberi, la luce elettrica di una lampadina illumina il volto dei Baiga seduti per terra accanto a me,
stupiti che qualcuno voglia sentire la loro storia.

“Ora che i Baiga non possono più farsi i loro tatuaggi, cosa li accompagna dopo la morte?”, chiedo io. “Niente”, mi risponde un uomo
sdentato e solo. “Niente accompagna i Baiga dopo la morte.” Anche la foresta è rimasta sola ora che i Baiga sono andati via. E a meno di un drastico cambiamento d’atteggiamento da parte delle autorità e del movimento per la conservazione, non credo che a lei potrà toccare una sorte migliore.

*Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, proteggere le loro terre e determinare autonomamente il loro futuro